Per celebrare i nostri 10 anni abbiamo deciso di intraprendere un viaggio: raccontare il futuro attraverso 10 “tappe” a cui abbiamo associato 10 parole chiave che scopriremo insieme ad alcuni “amici autorevoli” che ci accompagneranno lungo il percorso.
La nostra avventura inizia proprio oggi e terminerà a dicembre con una grande sorpresa, di cui ancora non possiamo parlare.
Inauguriamo questo format parlando di CREATIVITÀ, la nostra prima tappa di Marzo, la nostra prima parola chiave, in compagnia del grandissimo Max Casacci (Produttore, musicista e fondatore dei Subsonica) e del nostro CEO, Riccardo Recalchi.
Iniziamo? Diamo il benvenuto a Max.
[Guarda versione completa dell’intervista – 30 min]
Musicista, autore, produttore, sperimentatore. Chi è Max Casacci?
Nelle varie sfaccettature che mi hanno portato dentro la musica come tecnico del suono, chitarrista, compositore, produttore, paroliere ho sempre cercato di rispondere a un’idea artistica che viene da un’altra epoca. Senza nessun intento nostalgico, ma sono molto affezionato all’idea dell’artista manager, che sa barcamenarsi tra uno sponsor e l’altro. Ecco, io rimango attaccato al “non tradir la mia giovinezza” per dirla con le parole di una canzone di Fossati. In tutte le varie applicazioni che compongono il mio essere musicista, a tutto campo, cerco di mantenere quell’immagine lì, quella di un artista che si interroga sulla relazione con il proprio tempo e che cerca un significato in tutto quello che fa.
Nel 2015 vieni invitato come relatore a una TEDx Conference, sul tema “strade rivoluzionarie”. Bel concetto. Cos’è rivoluzionario per te?
Esistono alcuni fattori, come il talento, che sono molto più diffusi di quanto si immagini. In certi momenti e in certi luoghi questi doni diventano un fattore collettivo che ha lascia il segno. Questo fenomeno è riferibile a ogni contesto culturale. La creatività in genere è legata al fatto che varie discipline entrano in contatto tra di loro amplificando le potenzialità espressive di ciascuna. Se mettiamo una lente di ingrandimento a certe fasi storiche e in certi luoghi precisi, scopriamo che esiste una costellazione di luoghi che favoriscono questo incrocio moltiplicando le potenzialità espressive e il talento dei vari protagonisti.
Questo è uno dei motivi per cui sono molto affezionato alla stagione che questa città (Torino) ha vissuto sulle rive del fiume con i Murazzi. Quel luogo riusciva davvero a “fertilizzare” il talento. Alcune infiorescenze riuscivano a svilupparsi in modo molto più evidente. Quello era il luogo in cui Torino imparava a conoscere se stessa, un luogo in cui ci si incontrava. Lì è nata una scena musicale che si è incrociata con scrittori e artisti visivi, con i narratori degli anni settanta, che nella loro verbosità portavano una serie di preziose testimonianze e racconti. C’era una Torino collinare che si mescolava con i disoccupati. Il tutto era armonizzato in un contesto incredibile. Non è un caso che in un luogo come quello sono nate esperienze artistiche che continuano a vivere ancora oggi.
Nel caso di Revolutionary Road, titolo del TEDx di Lecce, io analizzavo quella bowery, quella “terra di nessuno”, sostenendo che alla fine ciò che oggi risulta essere più rivoluzionario risponde in realtà alle necessità umane. Abbiamo attraversato una fase storica nella quale il mezzo era diventato una finalità. Passare con una canzone in una radio non era solo uno strumento per arrivare al fruitore, ma era diventato il fine. Il numero di passaggi radiofonici era praticamente l’obiettivo a dispetto del fatto che la tua musica finisse per snaturarsi. Quindi interrogarsi sull’esigenza che ti spinge a fare musica era diventata una cosa sconosciuta. Questo vale anche in contesti e ambiti più grandi in realtà.
Papa Francesco è senza dubbio una delle figure più rivoluzionarie di questi tempi, per esempio, ha preso la dottrina cristiana e l’ha applicata in una forma lineare risultando un uomo straordinario. Questo spiega cosa vuol dire quando affermo che oggi essere rivoluzionari vuol dire semplicemente capire cosa significa essere umani.
Come vedi la situazione oggi in Italia rispetto alla creatività?
Oggi esiste sempre una vivacità che si auto alimenta sotterraneamente e che poi lancia la sfida al contesto attuale, alle ostruzioni e in alcuni casi riesce anche a vincerla questa sfida. Che piacciano o meno alcuni protagonisti, bisogna ammettere che c’è una rivoluzione generazionale della musica in atto, fatta da musicisti che hanno cominciato a scrivere canzoni, a orientare i codici della propria estetica in una certa direzione. Solo alcuni di questi arrivano dal contenitore dei talent. I più significativi sono cresciuti sotterraneamente, si sono creati i propri codici e hanno imparato a fare musica, e oggi incarnano i punti di riferimento di intere generazioni.
Dal mio punto di vista, alcuni di questi artisti hanno il talento per superare anche la stagionalità di certe forme estetiche, altri forse sono più imprenditori e un po’ meno capaci di affrontare il lungo periodo. Tutto questo, però, non lo vedo supportato da un contesto culturale che in qualche modo invogli e che sia in grado di dare nuovi strumenti di crescita. In Italia la musica passa sempre attraverso tanti canali che sembrano poi lo stesso canale. La musica è vista come un sottofondo, un tessuto sonoro da inserire tra uno spot e l’altro.
Non esiste un canale televisivo unicamente votato ad approfondire la musica. Esistono canali televisivi per la cucina, per la storia, per la religione, qualsiasi cosa, ma non per la musica. Si tratta di una cosa che tende un po’ a sacrificare il talento del Paese in cui viviamo, che trova sempre comunque il modo di uscire, fra troppe difficoltà. Andrebbero create le coordinate di un contesto culturale un po’ più valorizzante capaci di esaltare il talento che c’è.
Due anni fa avete festeggiato il ventennale dell’album “Microchip emozionale” e lo avete fatto con dei talenti che si sono adattati a un capolavoro della musica. Tra quegli artisti ci sono degli artisti che rispecchiano quello che ci dicevi sulla capacità di “superare la stagionalità”?
Indubbiamente sì. Il criterio con cui abbiamo scelto questi artisti innanzitutto era un criterio anagrafico. Abbiamo scelto tra quelli che oggi hanno l’età che avevamo noi al tempo di “Microchip emozionale” e poi artisti che hanno dichiarato loro stessi di essere stati ispirati da questo album. Per alcuni di loro il concerto dei Subsonica è stato l’incoraggiamento per poi decidere di fare musica nella propria vita. Non c’è niente di più gratificante di capire che quello che hai fatto ha lasciato un segno nella vita di altre persone. Quel tributo racconta anche un po’ questa storia.
Innovare quindi vuol dire anche guardarsi indietro e cercare di prendere spunto per poter fare meglio rispetto a chi ha già avuto altre esperienze e poi guardare avanti?
Innovare vuol dire lasciare un segno che sia il tuo, diverso da quello di qualcun altro. Il tuo segno è fatto di ciò che sei, delle tue scelte e delle tue ispirazioni; è fatto del bagaglio che porti sulle spalle. È importante come si vive la musica, come la si ascolta; come la si interpreta, come la si fa propria. Tutto questo determina alla fine chi sei e di conseguenza l’unicità del tuo segno.
Esci spesso dalla tua comfort zone musicale per inoltrarti nei suoni del mondo: ambienti urbani, natura, e adesso le api. Perché?
Questo è un album fatto con i suoni della natura e senza strumenti musicali. Penso che un’esperienza del genere si possa definire tale solo in presenza di uno smarrimento, quando devi attingere alle tue risorse e metterti a confronto con qualcosa che in quel momento ti appare sconosciuto. Lì si creano le condizioni base per un’esperienza. A maggior ragione questo vale nell’ambito artistico e creativo. Sono molto attratto dallo esplorazione di questo tipo di condizione di disorientamento.
La musica senza strumenti musicali nasce dall’esigenza di astrarre i suoni dalla natura e creare nell’ascoltatore un legame empatico con l’ecosistema, inteso anche nella sua fragilità. L’assenza di strumenti mi mette nella condizione di non essere colui che governa il processo creativo. Quando uno come Michelangelo Pistoletto ti chiede di mettere in musica un fiume e di fare di questo fiume una melodia, una tessitura quasi orchestrale, tu gli rispondi di sì e cominci a sudare freddo dopo e ti ritrovi con i microfoni ad aggirarti tra le sorgenti e cerchi di capire quei luoghi e cerchi di capire che storia sonora raccontare (guarda il video).
Ti ritrovi così ad ascoltare la natura come uno spettatore e non come un protagonista. Tutti questi fattori provocano una reazione che mi piace, che mi proietta in quella terra di nessuno dove cerchi di mettere insieme cose che fanno parte del tuo passato e sono un’esplorazione verso un futuro che ancora non conosci. Questo accadeva anche quando collaboravo con gli Africa Unite con quel tipo di reggae molto contaminato. Con i Subsonica in qualche modo abbiamo fatto un percorso analogo: da un lato c’era la scrittura delle canzoni, dall’altra c’era la sintesi di qualcosa che non proveniva solo dal mondo musicale, ma che ci univa e appassionava. Anche un lavoro di sintesi può essere quindi un lavoro estremamente creativo.
Cultura digitale o Digital transformation. Che suono ha?
Un suono giusto e un suono digitale. Le rivoluzioni tecnologiche in atto hanno stravolto il modo di fare musica, hanno abbattuto i costi di produzione e hanno accelerato i tempi di lavorazione, ma non necessariamente hanno fatto bene alla musica. Far interagire gli artisti a distanza ha eliminato le occasioni di suonare dal vivo insieme, in cui si provava insieme, si facevano errori insieme. Tutto questo ha semplificato molto, ma se paragoniamo la musica dell’altro secolo a quella di oggi non possiamo dire che ci siano stati enormi passi in avanti.
I passi in avanti si sono prodotti dove la tecnologia ha cominciato a suonare “nella sua specificità”, come in certi ambiti di musica elettronica dove si sono creati dei generi musicali in cui il suono digitale è stato usato in quanto tale, non come emulazione di qualcosa di precedente. Io oggi posso permettermi di mettere un’orchestra in un brano risparmiando del budget, ma non necessariamente questa scelta farà del bene alla mia musica. Pensa che sono stati fatti dei generi musicali sull’errore, sulla disfunzione, su quel linguaggio afasico che certe volte le macchine ogni tanto producono spontaneamente. È lì che ci si muove in un ambito molto diverso dal normale e significativo.
Secondo me il termine di paragone per capire quello che sto dicendo sono i Radiohead, l’ultimo grande gruppo della storia del rock, che a un certo punto (nel 2000) ha iniziato a stravolgere la sintassi musicale usando una sintassi digitale inedita e affacciandosi su una modernità nuova. Hanno cominciato cioè a utilizzare i nuovi strumenti con il loro linguaggio proprio, quello della nuova tecnologia. In questo senso spiego perché la cultura digitale suona digitale.
“Italy in a day”, la versione italiana diretta da Gabriele Salvatores ha un tuo brano (2014). Quale suono aveva quel giorno l’Italia?
L’Italia aveva un suono molto colorato. Viviamo in un luogo che ha una grande quantità di sfaccettature: dalla disperazione più totale all’amore più viscerale. Tutto questo si rifletteva in una tessitura cromatica di suono pazzesca.
Quale suono avrebbe oggi?
Se i Deproducers facessero una colonna sonora oggi sarebbe più ricca di silenzi perché stiamo vivendo un momento molto più silenzioso.
“Planetario” tessuto sonoro per la narrazione scientifica dell’astrofisico Fabio Peri è andato in orbita sulla Stazione Spaziale. Mi sveli la ricetta, cosa c’era in quell’album?
È stata ed è tutt’ora una vera esperienza. Siamo partiti in un gruppo di 4 musicisti-produttori (io, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Vittorio Cosma) e da un’idea di musica di insieme slegata dalla canzone. Volevamo recuperare una dimensione un po’ anni 70 e ci siamo chiusi in un luogo dove si poteva fare musica anche 24 ore al giorno. A un certo punto si trattava di capire dove collocare questa esperienza creativa. L’idea di unire la musica con la scienza ci è sembrata la cosa più opportuna. Da lì è partita quest’idea di sintesi.
Ci siamo esibiti davanti a teatri pieni e abbiamo realizzato un album e uno spettacolo sull’astrofisica, poi sulla botanica con Stefano Mancuso e sulla genetica con Telmo Pievani. Gli scienziati venivano messi provocatoriamente al posto dei frontman. L’idea era evidenziare come il dato scientifico avesse una valenza poetica pari o superiore alle parole del testo di una canzone. Durante lo spettacolo poi il dato veniva veicolato nelle sue forme più quotidiane per darne una fruizione diversa attraverso la musica. Veniva proposta una fruizione diversa della musica, che diventava così il vettore di qualcos’altro.
Max, siamo arrivati all’ultima domanda, forse quella più difficile: cosa succede nei prossimi dieci anni? Nella tua vita e nella società?
Partiamo dai dati. Nei prossimi dieci anni io vedo la nascita dell’Europa, perché si va in quella direzione ed è un’esigenza percepita soprattutto dalle persone più giovani. Molti ragazzi che abbiamo incontrato durante il nostro tour europeo ci hanno mostrato un’idea di Europa forte.
Credo che in questo momento rispetto alla tecnologia stiamo vivendo una fase di transizione legata al fatto che i cosiddetti “nativi digitali” sono oggi persone non ancora ammesse nei luoghi dove si prendono le decisioni. Questa cosa spero accada quanto prima, magari alla fine di questi dieci anni. E quindi dal punto di vista del rapporto culturale con questo scenario tecnologico, credo che oggi ancora non capiamo i reali benefici perché ci sono due culture che si stanno compenetrando. Tra dieci anni avremo risposte più nette in termini di benefici, quando la generazione che è nata sarà capace di dare delle risposte e di armonizzare tutte le nuove opportunità tecnologiche con le nostre radici culturali.
Grazie Max!
Se hai domande o feedback, scrivici. Saremo contenti di leggere le tue richieste o le tue opinioni.
Lo realizzeremo con amore e passione
Il nostro team è a tua disposizione