Il mese della digital transformation non poteva che concludersi con l’intervista ad Arturo Brachetti, il più grande illusionista e trasformista del mondo. Tanti sono i temi e gli argomenti che affronteremo oggi in sua compagnia: dall’empatia nel teatro all’umanità del futuro; dalla tecnologia fino alla creatività.
Il nostro viaggio continua. La prossima tappa sarà la parola chiave “cultura” in compagnia di altri due ospiti d’eccezione. Continuate a seguirci per saperne di più.
(Conduce l’intervista: Francesco Ronchi, Founder e President di Synesthesia)
[Guarda versione completa dell’intervista – 21 min]
Arturo, trasformista, attore, illusionista e regista teatrale. Come nasce questa passione? Qual è il termine che senti più tuo?
“Mi piacerebbe essere immaginato come un “fantasticattore”, cioè un attore della fantasia. Diciamo che io ho cominciato come illusionista. A 11 anni i miei genitori mi hanno messo in seminario. Fortunatamente a 14 anni ho conosciuto un prete che faceva giochi di prestigio e lì è cominciato tutto. Sono uscito dalla mia timidezza grazie a questi spettacoli. Poi mi travestivo perché avevo paura del palcoscenico. Ho cominciato a giocare con i costumi: prima tre, poi sei e così via. Adesso ne ho 450. Quindi sono diventato trasformista e regista molto più tardi, quando negli anni ’90 hanno cominciato a chiedermi di realizzare le cose che facevo per i miei spettacoli anche per gli altri. Tipo Aldo, Giovanni e Giacomo…”
Hai avuto il grande merito di aver riportato in auge, in Italia e in parte d’Europa, l’arte teatrale del trasformismo. Qual è stata la difficoltà maggiore incontrata nel tuo percorso professionale? L’arte del trasformismo cosa rappresenta secondo te dal punto di vista dell’arte e dei valori della società?
“Innanzitutto è un arte italiana perché era una delle gag utilizzate nella commedia dell’arte del ‘500 e ‘600. E poi per me è stata una rivincita sociale: travestirsi e fare giochi di prestigio per dimostrare agli altri che non ero una mezza cartuccia. In collegio mi bullizzavano, mi mettevano nel bidone dell’immondizia, mi prendevano in giro… Per loro ero il più piccolo, il più magro, il più sfigato… Poi a un certo punto grazie a quest’arte è cambiato tutto.
Il trasformismo è una componente della mia vita comune. Io mi rendo conto che in fondo siamo un po’ tutti vittima del trasformismo. Ci vestiamo a seconda dell’occasione. L’abito fa il monaco e dà l’autorità a una certa azione. Spesso noi mettiamo l’abito e recitiamo una parte ”.
Quindi anche nella vita sei trasformista?
“A volte esco di casa vestito da prete e vado in giro per il mio quartiere. Quando c’è stata l’esposizione della Sindone lo facevo ogni tre giorni. Mettevo una parrucchina bellissima cinematografica che ho preso in prestito a Jean-Paul Belmondo.
Ricordo che quando sono arrivato al Teatro Marigny di Parigi, nel 2000, prima di me c’era lui che faceva l’Otello. Quindi entro in camerino metto in ordine tutte le mie cose e apro un cassetto pieno di parrucche. Allora chiedo alla sarta del teatro di chi fossero. Lei mi rispose: “C’est Jean-Paul che qui l’a oublié”. Tra queste parrucche ce n’era una un po’ cinematografica, un po’ riccia… Si trattava di una parrucca da 3.000 euro. La sarta mi disse di non sapere nulla e che sarebbero venute a riprendersele. Io ho semplicemente cambiato la parrucca di cassetto. Dopo esser stata lì per ben due mesi, non è più venuto nessuno. A quel punto la sarta mi disse: “je n’ai rien vu, je n’ai rien vu” (non ho visto niente, non ho visto niente), allora je n’ai rien vu ciapa su. Ecco”.
Arturo, Synesthesia si occupa di digitale e di tecnologia. Nella tua vita e nel tuo lavoro, la tecnologia che ruolo ha?
“Io sono vittima dei gadget tecnologici da sempre. Nei miei spettacoli abbiamo il video mapping. Tutto il mio ultimo spettacolo è in videomapping, però il protagonista dello spettacolo devo essere io, cioè un essere umano. Il video mapping è una cosa in più. La fregatura di queste fantastiche Ferrari tecnologiche è che quando tu le hai vuoi andare sempre ai 250. La tecnologia va usata con parsimonia, non deve sovrastare l’’arte, se no diventi come in quel film di fantascienza in cui la testa è praticamente immersa in un monitor e tutto intorno è “Černobyl”. A volte sento dire: “facciamo le cose in Internet; il futuro del teatro è in Internet”. Ma per me è come far l’amore. È qualcosa che devi vivere lì”.
Per Synesthesia le persone rappresentano il cuore pulsante dell’azienda, con i loro valori, le loro caratteristiche e in totale clima di inclusione. Quanto conta per te l’empatia, il legame emozionale, che si crea con il pubblico durante i tuoi spettacoli? Per te quanto è finzione?
“L’empatia è necessaria a tutti i livelli. Non solo in teatro o nei mestieri dove uno lavora con il pubblico. L’empatia è alla base della nostra società. E poi è scientificamente dimostrato che noi attiviamo questi neuroni specchio fin dalla prima età grazie ai quali impariamo la compassione, la generosità, dai nostri genitori. Loro ce la trasmettono con le mani, con gli occhi, con il fisico e non attraverso uno schermo.
L’empatia poi smuove le montagne perché tu sei disposto ad ascoltare un individuo che la pensa all’opposto di te solo perché è simpatico, ti è simpatico.
Io penso che ognuno di noi viaggi a una certa velocità. È come se ognuno di noi avesse un proprio voltaggio. Tu hai 220, uno ha 12 volt, l’altro ha 380 ecc ecc. Se io voglio parlare con te è inutile che ti parli a 380 e tu rimani indietro. Devi trovare e capire il tuo voltaggio. Questo è un meccanismo empatico. Con il teatro tutto questo è addirittura esagerato perché il meccanismo empatico è portato su molte più persone che hai davanti. Però è uguale. Per me mille persone o una è uguale. Io so, per esempio, che ho un’ora e mezzo di spettacolo per affascinare queste persone con le mie magie e i racconti. So che ho tutti gli assi nella manica. Quindi per me conquistare un pubblico vasto oppure due persone ad una cena o ancora una sola che ti vuoi rimorchiare è uguale. Anzi, è più difficile una da sola. Molti lo fanno inconsciamente perché c’è gente dotata di natura. Per loro la vita è più facile”.
Siamo quindi noi a porci dei limiti?
“Sicuramente. Perché magari “sogniamo corto”.
Bisogna provare a immaginare di più perché se arrivi a metà è già tantissimo. L’empatia è un meccanismo di comunione, che poi è la base del teatro.
Si tratta di qualcosa che facciamo da 250 mila anni. Da quando c’è un vecchio davanti a un fuoco che racconta la storia degli antenati”.
Arturo, torniamo a parlare di trasformazione. Nel mondo della tecnologia si parla di trasformazione digitale. Che cosa significa per te “trasformare”? Trasformare vuol anche dire includere?
“L’evoluzione del mondo, che è durata 3.000 milioni di anni è una storia che racconta la trasformazione di una cellula che si è trasformata fino a diventare un essere umano. L’uomo rappresenta gli ultimi 250 mila anni, cioè proprio un rutto. E anche noi durante questi 250 mila anni ci siamo trasformati. Ma anche negli ultimi 30 anni ci continuiamo a trasformare. E quindi è così, non puoi farci niente. Questa è la legge, è il quotidiano, è la natura. Trasformazione vuol dire accettare che per andare avanti bisogna trasformarsi. È anche mettere in gioco i propri credi, le proprie convinzioni. Per esempio, 50 anni fa non pensavamo al pianeta, alla salute del pianeta. Adesso ci pensiamo quotidianamente.
Noi ci trasformiamo comunque per sopravvivere. Accettare e prevenire la trasformazione è la cosa ideale. Io guardo sempre al futuro. Per me il più bel giorno è domani perché lo posso immaginare e idealizzare”.
Parlando di futuro. Come vedi il mondo nei prossimi 10 anni? Quali saranno i valori che guideranno, secondo te, la società e le relazioni tra gli esseri umani? Saremo più vicini?
“Se guardo a quello che ci fanno vedere nelle piattaforme streaming sono un po’ preoccupato. Ti ricordi quell’episodio di Black Mirror dove tutti siamo misurati con i like? Forse lo facciamo per scaramanzia a creare queste serie. Secondo me il futuro viaggerà a diverse velocità: da un lato la tecnologia avanzerà in modo esponenziale, dall’altro continueremo ad apprezzare quelle cose fatte a mano come venivano realizzate dagli artigiani con gli scalpelli. Per vedere il futuro basta andare in Cina adesso, dove succedono delle cose tecnologiche impensabili per noi. Quindi, da un lato la Cina è fantascienza, dall’altro lato però magari certe cose manuali non le sanno risolvere come facciamo noi Italiani. Noi Italiani siamo specializzati a risolvere i problemi, nel mettere a posto le cose. Mi sono accorto di questa cosa quando facevo le tournée internazionali con i miei tecnici italiani che riuscivano sempre a trovare le giuste soluzioni ai problemi come se fosse qualcosa di normale. L’Italiano sta sempre a galla perché è abituato a essere sempre alla deriva. Siamo sempre abituati a trovare il salvagente. Penso che anche con l’avvento della tecnologia super all’avanguardia noi resteremo sempre un popolo di artisti perché ce lo abbiamo nel DNA. Un po’ ce l’abbiamo perché noi la nostra cultura lo assorbiamo fin da piccoli. Io mi sono trovato a fare delle tournée negli Stati Uniti, in città come Boston, Denver, Oklahoma, Detroit. In quei posti c’erano solamente centri commerciali e distributori di benzina. I centri erano deserti. Dopo 8 mesi mi sentivo alienato. Mancava la mia cultura, che non è solo leggere libri o andare per musei, ma è tutto ciò che ci circonda. Un bambino di 8 anni in Italia gioca a pallone davanti a una chiesa del ‘600. Lui non lo sa che è una chiesa del ‘600, ma questo ‘600 gli entra negli occhi, in testa, nel sangue. Il gusto, il senso della proporzione e della bellezza gli entrano per forza nel carattere. Questo, per fortuna è difficile da rubare”.
Qual è l’Arturo che porterai nel futuro?
“Io ho previsto che il mio fisico può tenere così ancora per 10 anni. Per un po’ cercherò di fare gli spettacoli dove c’è da faticare fisicamente al massimo. Poi ho incominciato già adesso a usare la parola: ho cominciato a programmare dei podcast, cose di storytelling o show telling. Voglio raccontare e immaginare cose per altri”.
Mi parlavi poi di altri progetti per aziende. Giusto?
“Sì, adesso realizziamo una formula che si chiama Transform – action in cui parliamo della trasformazione, della metamorfosi e di altri aspetti. Molte aziende hanno la necessità di trasformarsi, devono rinnovarsi. E chi sono quelli che remano maggiormente contro? Quelli della mia età”.
Chi non si trasforma si estingue. Per le aziende la trasformazione è fondamentale. Continuamente c’è la necessità di evolversi. Lo sappiamo bene. Arturo, un’ultima domanda. Se dovessi dire a un bambino cos’è la creatività, cosa gli racconteresti?
“La creatività è un giardino. C’è un posto nel tuo cervello dove tu ci metti tanti semini, che sono dei libri che leggi, delle informazioni, degli spettacoli che vedi, dei film che vedi.
Poi dopo, in questo giardino le piante crescono. Tu le lasci lì e dopo tanti anni ti ritrovi un giardino pieno di frutti. Sei diventato ricco di qualcosa perché hai piantato i semi 10, 20 anni prima. Io mi accorgo che la mia creatività funziona così. È come un software che digerisce per anni informazioni, per cui lo nutri continuamente e dopo 10 anni ho un’idea che sembra originale, ma è il frutto di un semino piantato precedentemente. D’altronde anche Steve Jobs diceva che in fondo la creatività non esiste. Se tu parli con gente creativa ti diranno: “no, ma io in fondo ho solamente visto quelle cose lì e le ho messe insieme. L’abilità sta nel mettere insieme cose preesistenti”.
Anche questo è trasformazione?
“Certo, perché crei una cosa che è nuova perché con gli stessi ingredienti fai una cosa nuova e poi nel futuro qualcun altro farà con i tuoi ingredienti qualcosa di nuovo.
Grazie!
Se hai domande o feedback, scrivici. Saremo contenti di leggere le tue richieste o le tue opinioni.
Lo realizzeremo con amore e passione
Il nostro team è a tua disposizione