Facciamo il punto della situazione sul concetto di Growth Hacking in Italia e di come il Growth Hacking può aiutare le aziende a crescere.
Lunedì 14 gennaio a Milano, presso Palazzo Castiglioni, si è tenuta la seconda edizione del Growth Hacking Day.
Anche questa edizione è stata promossa dallo stesso team di organizzatori che si era cimentato a maggio del 2018 nel lancio della prima edizione del Growth Hacking Day: Andrea Bifulco, Raffaele Gaito, Gerardo Forliano e Luca Barboni.
Sul palco, oltre agli stessi organizzatori, si sono susseguiti keynote speaker, professionisti del marketing moderno e protagonisti di case studio interessanti. Fra i più interessanti possiamo citare Viki Dallas CEO di Apocalypsis, Yara Paoli, CGO di Preply e former Skyscanner, Alessandro Cadoni di Friendz e Matteo Concas ex N26, CEO di Beesy.
A coloro che hanno acquistato il biglietto sarà possibile scaricare il materiale diffuso dagli speaker durante l’evento, in questo post vorremmo provare a fare il punto della situazione sul concetto di Growth Hacking in Italia e di come il Growth Hacking può aiutare le aziende a crescere e generare nuove best practice.
Il Growth Hacking è un mindset. Lo dice sempre Raffaele Gaito ed è effettivamente una delle migliori forme per definire una disciplina che racchiude al suo interno così tante (e diverse) competenze e che tocca molteplici comparti della vita quotidiana di un’azienda.
Si tratta essenzialmente di un processo che prevede una rapida e costante sperimentazione attraverso strumenti e tecniche tipiche del marketing digitale e del marketing a risposta diretta.
Il termine growth hacking è stato coniato nel 2010 da Sean Ellis, già Manager della Crescita per startup di successo come Eventbrite e Dropbox, facendo riferimento alla cultura degli ingegneri del software che praticano azioni di hacking e al concetto di crescita aziendale.
Con Growth Hack si intende infatti una particolare azione, uno specifico processo che è stato testato sulla base di tecniche comparative a risposta diretta (A/B Test etc) e ha dimostrato una capacità di performance molto più alta rispetto alle altre azioni praticate in precedenza.
Il Growth Hacker è un professionista in grado di attivare dei processi data driven sperimentali, capaci di fornire conoscenza e informazioni per migliorare non solo le performance dei reparti marketing ma anche commerciali e, in certi casi, migliorando addirittura lo stesso prodotto.
La figura del Growth Hacker racchiude in sé un eterogeneità di competenze che rendono il Growth Hacker una risorsa multidisciplinare. Il Growth Hacker è in grado di spaziare dalle competenze tecniche, quali linguaggi web e di programmazione, UX, tecniche SEO, capacità di analisi dei dati; fino competenze più umanistiche, quali sociologia dei nuovi media, psicologia applicata al marketing o marketing tradizionale a risposta diretta.
Oggi la figura del Growth Hacker è una preziosa risorsa che aiuta le aziende a trovare nuovi metodi e nuovi processi per aiutare l’azienda a crescere, acquisendo nuovi clienti (i cosiddetti blue Ocean), massimizzando i processi di acquisto e di retention degli utenti, in alcuni casi addirittura ottimizzando certe caratteristiche del prodotto o del servizio utile alla crescita.
Il Growth Hacker ha generalmente alle spalle comprovati casi di successo nell’ambito della crescita aziendale con strumenti innovativi e/o digitali, esperienze professionali nell’ambito UX e/o digital marketing per aziende di software, start-up o nuovi prodotti/nuove unit.
Negli ultimi anni, il termine “Growth Hacker” ha collezionato un hype sempre maggiore. In certi ambienti dell’innovazione la figura del Growth Hacker pareva sempre più imprescindibile e fondamentale allo sviluppo dell’azienda nel terzo millennio.
“L’era dei CMO (Chief Marketing Officer) è finita. È giunto il tempo dei CGO, Chief Growth Officer.”
Lo si sente a ogni convegno, conferenza, workshop di Growth Hacking o Growth Strategies. Ma sarà vero? E soprattutto, varrà per ogni mercato?
A quanto pare, non sempre. Nei mercati più sviluppati, come il mercato US, alcune aziende importanti, moltissime start-up, hanno assunto dei Growth Hacker, anche se a seconda dei casi per motivazioni diverse.
Le start-up scegliendo un Growth Hacker sperano di ottimizzare i budget limitati finalizzati alla crescita (o messa sul mercato) del proprio prodotto.
Le grandi aziende sperano grazie al Growth Hacker di introdurre nuove metodologie, processi di acquisizione disruptive (fortemente innovativi) o creare nuove feature, nuovi prodotti, capaci di aprire a nuove prospettive di mercato.
Se quindi da un lato sia start-up all’avanguardia come Dropbox, AirBnB, Facebook (quando era una start-up), sia mastodontiche e storiche aziende come Coca-Cola company scelgono di assumere internamente dei Growth Hacker o Growth Manager (a seconda della seniority); dall’altro la stragrande maggioranza delle aziende, soprattutto in mercati poco avanzati (a livello di innovazione e di competenze digitali), sceglie di richiedere in outsourcing la competenza del Growth Hacker, rivolgendosi ad aziende con un forte posizionamento nel mondo dell’innovazione e dei nuovi processi di crescita.
Nascono quindi (anche in Italia) agenzie specializzate in metodologie di Growth Hacking che offrono servizi di marketing innovativo ad aziende che vogliono approcciare delle nuove metodologie costruendo un rapporto di reciprocità con un partner tecnologico, invece che assumendo una risorsa da gestire, controllare e monitorare.
Per imparare il Growth Hacking bisogna iniziare leggendo il maestro, Sean Ellis. Ellis e Morgan Brown hanno firmato un libro importantissimo per il mondo del Growth Hacking. Il libro è stato tradotto e portato in Italia da ROI Edizioni con il titolo “Growth hacking marketing. La strategia di crescita rapida delle aziende più innovative”.
In Italia il termine Growth Hacker ha iniziato a essere sulla bocca di molti professionisti del settore Digital, Startup e Innovazione a partire dal dal 2017 con l’uscita del libro di L. Barboni L. Simonetti “Growth Hacking. Fai crescere la tua impresa online”.
Un anno più tardi Franco Angeli pubblica “Growth Hacker, mindset e strumenti per far crescere il tuo business”, scritto da Raffaele Gaito.
Fra le altre letture per chi vuole collezionare le letture più importanti relative al mondo del Growth Hacking troviamo il libro di Ryan Holiday, Growth Hacker Marketing, una pietra miliare capace di spiegare come i Growth Hacker siano riusciti rapidamente ad acquisire utenti, conquistando il mercato di riferimento.
Una lettura fondamentale rimane sempre quella di Lean Startup, che si basa su una serie di pratiche contrastanti che riducono i cicli di sviluppo dei prodotti, misurano i progressi reali senza ricorrere a metriche vanesie e intercettano gli utenti reali, cioè quelli che sono pronti a essere convertiti da utenti a clienti. Invece di perdere tempo creando elaborati piani di business, Lean Startup offre un modo per testare continuamente la propria visione e adattarsi al cambiamento. Ries fornisce un approccio scientifico alla creazione e alla gestione di una start-up di successo in un’epoca in cui le aziende si trovano costrette a innovare ogni giorno.
Durante il secondo convegno del Growth Hacking Day, Viki Dallas ha affrontato un interessantissimo punto che rientra in una delle tipiche tecniche di crescita strategica: il Silent Nurturing.
Il termine fa riferimento al processo di Lead Nurturing, ovvero la selezione e il filtraggio degli utenti raggiunti i quali sono effettivamente “pronti” a diventare dei clienti del prodotto/azienda in oggetto ed essere quindi convertiti in customer.
La riflessione di Viki Dallas è sorta da un semplice, allo stesso tempo importantissimo concetto: non tutti gli utenti sono pronti a visitare il nostro sito (il ragionamento è tuttavia applicabile a qualsiasi digital asset, app, eCommerce etc). Secondo Dallas, i marketers tendono a lavorare sulla bassissima percentuale di pubblico “pronto” a essere convertito. Poniamo che il bacino di utenti pronto per la conversione consti di un 3% del mercato potenziale. Per Dallas, i costi necessari per scalare il bacino del 3% fino all’ultimo utente, potrebbero non necessariamente essere inferiori rispetto all’effort necessario a preparare nuovi clienti ad assumere il mindset e le informazioni necessarie per diventare potenziali acquirenti del prodotto o servizio in oggetto.
Va quindi eseguita una differenziazione del budget per il marketing, includendo sia azioni per convertire il micro-bacino di utenti pronti alla conversione, sia per creare degli “spazi esterni” in cui diffondere informazioni utili a creare una conoscenza di base che fungerà da ponte informativo verso i luoghi di vendita che stiamo promuovendo all’interno della strategia di crescita.
Per Dallas, le manovre di Nurturing sono silent (silenti) cioè il loro outcome è consultabile sul medio periodo e non ingaggiano “direttamente” l’utente. Ci si limita a proporre le corrette informazioni nei luoghi in cui è possibile intercettare nuovi flussi di pubblico, offrendo agli utenti informazioni di valore che insidieranno nella mente degli utenti informazioni che fungeranno da driver direzionali verso il servizio, prodotto, oggetto dell’azione di Silent Nurturing.
Durante il secondo convegno del Growth Hacking Day, è stato introdotto un altro importante aspetto inerente alle strategie di crescita innovative. Yara Paoli, ex Skyscanner, ha parlato in maniera approfondita di “cultura della crescita”. Secondo Yara Paoli costruire all’interno della propria azienda una cultura della crescita positiva è un presupposto fondamentale per conservare la “zona di apprendimento” e limitare al minimo la “zona dell’ansia”. Paoli sostiene che all’interno dell’ambiente aziendale si possono creare quattro possibili situazioni emotive che poste su un piano cartesiano, occuperebbero rispettivamente i quattro riquadri del piano.
Per Paoli, le situazioni di bassa performance generano due possibili situazioni, a seconda dello stato emotivo (positivo o negativo) delle risorse: “zona di apatia” (stato emotivo negativo) oppure “zona di comfort”.
Nelle situazioni di alto livello di performance: uno stato emotivo negativo può far precipitare le risorse nella “zona dell’ansia”; mentre invece nell’ambito di uno stato emotivo positivo le risorse possono trarre vantaggio dalla “zona di apprendimento”. Yara Paoli sostiene d’altronde che le tecniche innovative di crescita necessitano, come sappiamo, di frequenti e insistenti azioni di sperimentazioni per, appunto, trovare il giusto hack. Lasciare che si formi quindi un ambiente insalubre e non costruttivo rispetto la sperimentazione (e quindi il fallimento) potrebbe escludere delle interessanti opportunità di sperimentazione (e quindi, in certi fortunati casi, di innovazione). Per questo l’attenzione alla crescita parte non solo dai dati ma anche dal clima che si respira in azienda e dai sentimenti di fiducia, rispetto reciproco, rispetto della competenza e della creatività che permettono all’azienda di rendere sinergiche idee che da sole non apporterebbero il medesimo valore.
Sul palco del Growth Hacking Day è salito anche Matteo Concas, per raccontare il caso di N26, la giovane banca digitale tedesca che ha fatto del digital e del “pensiero smart” i suoi cavalli di battaglia. Concas ha ricoperto il ruolo di Direttore Esecutivo per l’Italia e durante la fase di lancio del prodotto N26 ha affrontato una serie di problemi e di situazioni che lo hanno portato a elaborare dei mindset tipici delle tecniche di Growth Hacking.
Il primo problema affrontato da Concas è stato relativo al log in.
La User Experience di N26 non prevedeva la possibilità di utilizzare la carta d’identità non elettronica, poiché faceva riferimento a uno standard europeo sui documenti d’identità al quale Italia, Cipro e Portogallo non si erano ancora adeguati. Per registrarsi era necessario il passaporto.
In Italia davvero poche persone possiedono il passaporto. Se quindi da un lato, sembrava esserci una penuria di italiani aventi passaporto dall’altro, secondo il manager italiano, era possibile operare una feroce clusterizzazione per individuare quali fossero quegli utenti che oltre a possedere il passaporto erano interessati a prodotti fintech. Questo cluster è coinciso con gli ambienti delle startup, che hanno iniziato ad avvicinarsi al prodotto N26, confermando il trend secondo il quale innovators are early users. Gli stessi innovatori italiani hanno iniziato a popolare il bacino di utenza iniziale della banca grazie al passaparola attivati da Concas e il suo team con incontri fisici, workshop e conferenze. Dopo aver creato una piccola community di early users, dopo aver ottimizzato i problemi UX e le feature prodotto al fine di ottimizzare la capacità di penetrare il mercato italiano, Concas capisce che è il momento di osare. Commissiona così al noto rapper torinese Shade un video creativo per innescare una campagna di inbound marketing capace di scalare il processo di acquisizione utenti.
Il video si rivela un successo e resiste come “Youtube hot trend” per 7 settimane, collezionando milioni e milioni di visualizzazioni e aumentando esponenzialmente il traffico sui canali digitali di N26.
Difficile indovinare quante banche avrebbero pensato di investire nella creazione di un video rap diffuso sui social; sappiamo tuttavia che la campagna di N26, seppure non convenzionale, si è rivelata un caso di successo che rivela come cambiare il mindset, sia il più grande fattore di innovazione a cui ci si possa concedere.
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