Il mese della cultura si conclude con Mauro Berruto, ex allenatore della Nazionale olimpica di pallavolo maschile e autore televisivo. Abbiamo parlato con lui di “cultura dello sport”, di che cosa voglia dire allenare, indagando i limiti dell’”inallenabile”, e abbiamo provato a immaginare come sarà il futuro nei prossimi 10 anni. Continuate a seguirci per scoprire la tappa successiva e i prossimi ospiti in arrivo.
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Dal mondo del volley a quello della scrittura. Ti va di raccontarci brevemente questo percorso? Quali sono state le tappe più significative?
“Mi sarebbe piaciuto moltissimo dirti: sai, ero molto forte a giocare a pallavolo, poi mi sono fatto male e ho cominciato ad allenare. Invece io ero sano come un pesce e non avevo il talento dell’atleta quindi la mia formazione e il mio background scolastico è di tutt’altro genere. Mi sono laureato in filosofia. La fortuna mia è stata quella di allenare in contesti culturalmente molto diversi l’uno dall’altro. Oltre a tutte le città dove ho vissuto in Italia, porto i due estremi come esempio, che sono i tre anni che ho passato in Grecia e poi i sei che ho trascorso in Finlandia, prima della Nazionale italiana. È chiaro che il mestiere è lo stesso, cioè tu devi cercare di vincere le partite, ma allenare un atleta greco e uno finlandese non è la stessa cosa.
Tutto nasce da due cose fondamentali: da una curiosità infinita e dalla bellezza di una parola che negli ultimi anni è stata usata tanto, ma con un significato sempre negativo. Sto parlando della parola “contaminazione”. Dovremmo riappropriarci della bellezza di questa parola. Questo è un lavoro che dovremo fare post-pandemia, cioè tornare a convincerci che la relazione, il contatto, la mescolanza delle culture, delle esperienze è un fatto generativo”.
La parola di oggi è “cultura” e mi sembra che il tuo discorso sia perfettamente centrato perché fa parte proprio della cultura saper contaminare le esperienze differenti per andare meglio, raggiungere risultati migliori, cambiare in meglio.
Mauro, nel corso della tua carriera sei stato l’allenatore di pallavolo della Nazionale Olimpica maschile, ottenendo importanti risultati (un secondo posto agli Europei del 2011 e del 2013 e la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Londra nel 2012). Qual è l’insegnamento più importante che porti con te da questa esperienza?
“Mi ha lasciato una delle lezioni più grandi della mia vita. Non solo della mia carriera sportiva. Già solo partecipare ai Giochi Olimpici rappresenta una sorta di benzina che genera e tiene vivo il motore degli atleti. Spesso ti accorgi che, lavorando tanto, quel sogno impossibile da realizzare può diventare più “a portata di mano”. Rappresenta il culmine di ogni esperienza sportiva. Io ho avuto la fortuna di partecipare due volte ai Giochi Olimpici: una da assistente allenatore nel 2004, vincendo una medaglia d’argento con Gianpaolo Montali e l’altra a Londra nel 2012, dove ero capo allenatore.
In entrambe le occasioni quello che ho imparato è la meravigliosa ispirazione che ti restituisce l’idea che tu prepari ossessivamente un appuntamento con un’attenzione ai protocolli, ai dettagli, veramente totalizzante. Arrivi perfettamente consapevole e pronto grazie al lavoro che hai fatto nei 4 anni prima e lì scopri che nessun parametro è uguale a quello che pensavi, che preparavi.
Scopri che esiste una meravigliosa dimensione dell’ “inallenabile” nella prestazione, che a noi allenatori piacerebbe eliminare perché ci piacerebbe avere tutto sotto controllo, avere tutte le soluzioni pronte per qualunque imprevisto succeda e, invece, la differenza la fa quell’area “inallenabile”, perché è vero per definizione che non si può allenare l’inallenabile, ma si può allenare quello che tu fai, il modo in cui tu reagisci quando ti si presenta di fronte una situazione che non potevi prevedere.
Mi verrebbe da riflettere sul fatto che 13 mesi fa ci è capitata la stessa cosa: naufragati su un’isola deserta. Il naufragio non è una decisione, è una cosa che ti capita. Quello che tu puoi fare quando scopri che sei ancora vivo e ti svegli sulla spiaggia e non hai magari le cose che avevi sulla barca è decidere di rispondere in maniera proattiva a quello che ti è capitato. Questa cosa io l’ho imparata certamente ai Giochi Olimpici, dove qualunque parametro è qualcosa di completamente diverso e nuovo, a partire dall’esperienza del villaggio”.
Tu hai allenato tantissimi atleti nel corso della tua carriera sportiva. Chi è stato l’atleta più “inallenabile”, cioè quello che ti sorprendeva di più?
“Tra i 120 atleti con passaporto italiano che giocano in Serie A, io ti assicuro che la differenza non è più nei 5 o 6 centimetri che uno salta in più, nella qualità tecnica che un atleta può avere di più rispetto a un altro. Maggiore è il talento, maggiore è il rischio che il processo di allenamento possa essere messo in discussione. Più una cosa ti viene facile e naturale, meno è naturale immaginarci di dedicare del tempo per migliorarla. Poi c’è sempre chi abbina queste due caratteristiche. Questi sono i campioni assoluti. A me piace sempre ripetere che il talento è un dono e l’allenamento è una scelta.
A me piacciono i campioni e i talenti che decidono di validare quella scelta. Quindi se tu mi chiedi quali sono i grandi campioni che ho avuto l’onore di allenare mi vengono in mente certamente 2 o 3 nomi. Uno fra tutti: il capitano della mia Nazionale che si chiama Cristian Savani, un meraviglioso esempio di talento non assoluto, ma messo completamente a disposizione dell’allenamento.
Poi mi vengono in mente altri campioni che avevano un talento decisamente inferiore, ma che sono riusciti a tirare fuori tutto il loro potenziale grazie alla qualità e al lavoro dell’allenamento. Se tu pensi alla Nazionale che avevo a Londra c’erano due liberi: uno era Andrea Bari e l’altro Andrea Giovi che sono due ragazzi che per varie situazioni hanno avuto una carriera molto limitata in Serie A1. Sono però due giocatori che hanno saputo mettere a disposizione della squadra il 100% del loro potenziale.
La capacità di un allenatore di pallavolo è quella di mettere insieme queste tipologie di atleti. La pallavolo ha un grande vantaggio: è l’unico sport al mondo dove è obbligatorio passare la palla. Se ci pensi bene, non esiste in nessun altro sport questa regola. Nella pallavolo non è possibile fermare la palla e toccarla due volte consecutivamente. La cosa interessante di questa regola è che capovolge l’immagine del campione. Mentre in altri sport di squadra (calcio, rugby, basket, ecc.) esiste per un singolo la possibilità di determinare in maniera decisiva la partita, nella pallavolo questa cosa è vietata dal regolamento”.
Sport e cultura. Due ambiti che hanno caratterizzato la tua carriera e la tua vita fino a ora. È possibile rintracciare delle analogie tra questi due mondi?
“Guarda, ti rispondo trasformando quella “e” congiunzione nella “è” con l’accento, nel verbo. Sport è cultura e viceversa. A me piace tanto parlare di “cultura del movimento”. Qui le due parole trovano una sintesi diversa. Io raccontavo prima che ho avuto la fortuna di lavorare per tanti anni in Finlandia, dove la cultura del movimento è immediatamente percettibile. C’è una grande attenzione per lo sport guardato, ma lo sport è prima di tutto praticato. Io credo che questa cultura del movimento debba diventare un diritto costituzionale. È evidente che lo sport è un generatore di risparmio al servizio sanitario nazionale, quindi dialoga direttamente con il “diritto alla salute” (che è previsto dalla Costituzione). È altrettanto evidente che una cultura del movimento vada insegnata nelle scuole, in particolare nella scuola primaria, cioè nel posto dove i nostri bambini dovrebbero imparare ad appassionarsi a qualcosa (alla storia, alla matematica, alle scienze, ecc.). La stessa cosa dovrebbe succedere con lo sport. La cultura del movimento dovrebbe essere un bene e un diritto del cittadino, ovviamente democratico e accessibile.
La parola sport scritta nella Costituzione cambia un paradigma, una dignità nuova e permette a quel diritto di dialogare, come dicono a Siena durante i giorni del Palio, “per forza e per amore” con altri due diritti fondamentali che sono quelli all’istruzione e alla salute. Una nuova dignità della disciplina ci permette di mettere a fuoco un’enorme potenzialità dello sport che da un lato fa muovere i corpi e dall’altra ha questa grande capacità di ispirare le persone”.
Nella tua autobiografia “Capolavori” (2019, add editore) c’è una storia meravigliosa che ti riguarda. Sto parlando dell’episodio dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montichiari. Durante questo momento il tuo concetto di “allenare”- come tu dichiari – è cambiato tanto. Mauro, che cosa significa allenare?
“Io sono molto legato al sottotitolo di quel libro. Un capolavoro può essere una medaglia olimpica, ma può essere anche il fatto che io quasi cinquantaduenne preparo la maratona iniziando adesso e riesco a farla in 3 ore e mezza realizzando il mio potenziale. Per me quello è un capolavoro. Però dicevo il sottotitolo del libro che sono treverbi fondamentalmente: “allenare”, “allenarsi” (lo stesso verbo al riflessivo perché l’allenamento riguarda sempre anche noi allenatori) e poi c’è un terzo verbo che è “guardare altrove”. Si tratta di un concetto molto antropologico che in qualche modo torna alla nostra prima domanda: questa idea di sapersi misurare e andare a confrontarsi con dei mondi diversi. Che cos’è il gesto dell’“allenare”? C’è una parte di competenze tecniche e tattiche che si imparano, però io credo che fondamentalmente allenare non sia altro che “allenare il desiderio di…”. C’è una bellissima frase che io uso sempre quando voglio spiegare che cosa sia per me allenare. È una frase non di uno sportivo, ma del poeta Antoine de Saint-Exupéry che recita più o meno così:
“Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato”.
Questo per me è allenare. Per quanto riguarda invece quell’episodio di cui tu parlavi, in quel periodo io allenavo a Montichiari nella Serie A1 e allenavo anche la Finlandia nella stagione estiva e venni avvicinato dai responsabili della struttura sanitaria dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione di Montichiari. Loro volevano proporre un progetto di sport a un gruppo di detenuti. Mi piaceva l’idea, mi piaceva l’idea di usare anche la pallavolo. Io decisi di impegnarmi a ospitare queste persone nel Palasport di Montichiari il lunedì, quando il Palasport era chiuso. Il contesto era quello della massima serie: palloni di cuoio, le magliette della prima squadra. Per sei mesi, tutti i lunedì, questi ragazzi venivano ad allenarsi in quelle condizioni. Questa esperienza finì con un momento hollywoodiano, in un torneo con delle squadre composte dalle scuole superiori di Montichiari dove questa squadra riuscì a vincere un set. Ci sembrava già qualcosa di straordinario, ma la cosa più straordinaria successe qualche mese dopo la fine di questa esperienza. Tornarono a trovarmi gli operatori dell’Ospedale con dei report dove era scritto che i partecipanti a quel progetto aveva dimezzato le necessità farmacologiche alle quali erano sottoposti. Entrambi gli obiettivi raggiunti erano esclusivamente legati alle condizioni di bellezza all’interno dei quali quei ragazzi avevano operato, cioè il palazzetto della serie A con le luci, i palloni, l’attrezzatura e anche io ero parte di quella scenografia.
Quest’episodio ha cambiato il mio modo di di vedere lo sport. Io da giovane allenatore avevo un po’ la presunzione di avere l’esercizio più bello degli altri e la capacità di costruire un allenamento “perfetto”. Poi più passa il tempo, più hai esperienze diverse, scopri davvero che “allenare” significa “allenare al desiderio di”, risvegliare quel quella nostalgia del mare aperto e infinito di cui parlavamo prima necessario per far costruire la barca. Tutto questo cambia tutto, cambia il modo in cui tu guardi alla tua professione e cambia anche il modo in cui tu guardi fuori la tua professione”.
Una delle personalità più competitive del mondo dello sport, Michael Jordan, diceva: “Mai dire mai, perché i limiti, come le paure, sono spesso soltanto illusioni”. Che valore ha il “limite” all’interno di tutto questo? Come definisci questo concetto? Come affronti i limiti nel tuo lavoro?
“Io credo che i limiti siano lì per farci capire quanto fortemente vogliamo una cosa. Mi viene da sorridere perché se penso alla mia carriera sportiva e alla mia vita, io mi sono sempre messo di fronte a cose che non conoscevo. Dalla filosofia alla pallavolo. Dopo la pallavolo la Scuola Holden, in un ruolo amministrativo e da amministratore delegato dovevo imparare tutta una serie di nozioni che non mi appartenevano. Poi ancora il tiro con l’arco, una disciplina che non conoscevo, e tante altre esperienze. È chiaro che di fronte a quelle situazioni tu hai due scelte: una è quella di dire “di fronte a queste situazioni nuove non voglio ulteriori problemi” e l’altra è dire “bene, questo è il contesto in cui voglio muovermi”. Se tu sostituisci la parola “problema” con la parola “contesto” sei già nel campo della ricerca delle soluzioni perché un problema può essere dato dalla sfortuna, da qualcosa che non ti meritavi. Se invece definisci il problema come contesto inizi a ricercare le soluzioni per muoverti in quel contesto lì con efficacia. Per me il limite è sempre la capacità di misurarti in un contesto in cui puoi esserti trovato oppure perché lo hai deciso. Questo ti spinge prima di tutto a studiare e quindi a conoscere quel contesto e poi a volerti muovere in un ambito che non è completamente il tuo. Per me quella è davvero la spinta vitale che ci fa proseguire.
Io, a 52 anni, sono felice di dirti che non so che cosa farò per i prossimi 3 anni.
Nella nostra azienda superare i limiti vuol dire “innovare” come un atleta che superando i limiti si migliora. Per noi il limite è un’opportunità di crescita, di trasformazione e di impegno.
“Sì. Tra l’altro l’innovazione si trova sempre all’incrocio delle competenze. Tu puoi essere un bravissimo tassista e poi puoi avere la passione per la programmazione sullo smartphone. Se incroci quelle due competenze e inventi Uber, allora hai fatto innovazione”.
Mauro, arriviamo all’ultima domanda, che è la domanda più difficile. Che cosa dobbiamo ancora aspettarci secondo te nel futuro? Come ti immagini il futuro dello sport e della cultura nei prossimi 10 anni?
“Questi ultimi mesi sono per noi un’occasione di discontinuità gigantesca. Ci sono due possibilità: la prima è di resistere a quello che succede caparbiamente e di tornare uguale a prima. Questo significherebbe aver avuto la tragedia del Coronavirus senza aver imparato niente. La seconda possibilità è quella di calarci in un contesto generativo di una serie di nuovi modelli che vadano a sostituire i modelli precedenti che sono andati in crisi anche grazie al Coronavirus, ma che non andavano bene neanche prima.
Perdonami l’altezza del riferimento, è come quando Altiero Spinelli scriveva il Manifesto dell’Europa a Ventotene e lì fuori c’erano i lager, il fascismo e il nazismo. È proprio in quel momento lì che lui ha alzato lo sguardo e ha immaginato un’Europa diversa.
Noi dobbiamo fare la stessa cosa nelle nostre rispettive competenze. Nell’epicentro del problema dobbiamo alzare lo sguardo e immaginare dei modelli diversi questo vale per quanto riguarda la transizione ecologica, vale per l’innovazione, per la digitalizzazione, vale per la parità di genere, vale per lo sport, per la salute. Non a caso sono tutte aree di missione del Recovery Fund che sarà una gigantesca occasione “once in lifetime”.
Se noi interpretiamo questa situazione con gli strumenti novecenteschi rischiamo davvero di buttare via tutto. Non voglio fare retorica perché non ci sono più oltre 110.000 persone. Ci sono categorie commerciali in ginocchio. Non voglio dire che questa è stata una benedizione dal cielo. Ci mancherebbe altro. Però questo è un momento di discontinuità e noi da questo momento possiamo scegliere come uscire. Mettere le lancette indietro e sperare che tutto torni come prima, oppure costruire davvero modelli nuovi”.
Grazie Mauro, sei stato davvero inspirational!
“Grazie a voi. Ribadisco gli auguri per il compleanno che è sempre un bel modo di guardare un po’ indietro, alla storia che uno ha alle spalle, ma è anche una grande occasione per guardare avanti. Synesthesia è una delle eccellenze della nostra città, è un luogo dove si fa innovazione. Buon compleanno. Dieci, venti, trenta, cinquant’anni di futuro da costruire insieme!”
Continuate a seguirci per scoprire le prossime tappe di questa avventura e i prossimi temi che affronteremo insieme ai nostri compagni di viaggio.
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